What if..? E se..?

Mi ha stupito in positivo, per quanto non sia il mio genere di fantascienza.

Avevo iniziato I reietti dell’altro pianeta quando ero confinata in casa col coronavirus che imperversava, ma facevo moltissima fatica a leggerlo: probabilmente non era il periodo giusto. A mio modesto parere, Le Guin è primariamente una scrittrice di fantasy e io al fantasy sono un po’ allergica, mi dispiace. Di questo libro, La mano sinistra del buio (The Left Hand of Darkness, 1969), non ho amato i ripetuti sconfinamenti nella modalità magico-religiosa e la riduzione dell’aspetto scientifico, già poco presente, a una sorta di magia essa stessa (vedi l’ansible). Si potrebbe obiettare, riprendendo le parole di Arthur C. Clarke, che una qualunque tecnologia sconosciuta può essere presa per magia da chi con essa non ha familiarità (gli abitanti del pianeta Inverno/Gethen sicuramente non hanno gli strumenti cognitivi e tecnologici per capire come funzioni l’ansible, e noi lettori con loro), tuttavia la quasi totale assenza di spiegazioni (fanta)scientifiche è stata un po’ dura per me da digerire.

Altro aspetto che può creare difficoltà, soprattutto all’inizio, è il funzionamento della società di Inverno. Il lessico delle usanze, dei ruoli, dei costrutti sociali, delle istituzioni, delle due religioni è abbastanza complesso; considerato l’inizio in medias res del romanzo e l’assenza di un glossario, occorre essere molto attenti e se necessario tornare indietro. Segnalo, comunque, che esiste una piccola, utile appendice in questa edizione in cui viene spiegata la misurazione del tempo. Quel che distingue Le Guin da un autore come Frank Herbert mi pare sia, però, il maggior rigore antropologico (del resto, l’autrice era figlia di un antropologo) e una caratterizzazione dei personaggi più pronunciata. Differenze che ho apprezzato molto, visto quanto non sopporti Dune e i suoi protagonisti praticamente privi di qualsivoglia maturazione (o involuzione).

Le parti più belle per me sono la speculazione sulla società ambisessuale di Gethen e il viaggio tra i ghiacci compiuto dal terrano Genly Ai, l’Inviato dell’Ecumene, e il/la getheniano/a Estraven.

La prima è un magnifico esempio di esperimento di pensiero, forse l’unica caratteristica davvero fantascientifica del libro. E se esistesse una società così strutturata, cosa succederebbe? Questo esperimento di pensiero però non va, secondo me, interpretato come un’utopia. La vera utopia sembra essere l’Ecumene, la federazione dei pianeti che in modo assolutamente pacifico propone agli Stati di Gethen di unirsi a essa. La società di questo pianeta, in realtà, non è tutta rose e viole. Da un lato, la possibilità per ciascun abitante di ritrovarsi maschio o femmina nei giorni del kemmer (una sorta di calore) e quindi l’eventualità che ognuno possa diventare madre fa sì che la cura dei figli sia bilanciata tra i membri della coppia (che può benissimo non essere fissa). Inoltre, sembra che questa androginia sia la principale responsabile dell’assenza di guerre su Gethen, anche se sospetto che la vera causa sia il clima glaciale.
Tuttavia, si viene presto a scoprire che l’assenza di guerre non implica l’assenza di becero nazionalismo e di aggressività: in Kharide, stato semi-feudale, il re è apertamente pazzo e si lascia abbindolare da un primo ministro crudele che vuole risolvere con la violenza una piccola disputa territoriale con Orgoreyn, lo Stato confinante; nello stesso Orgoreyn, che invece pare modellato sull’Unione Sovietica, il controllo della burocrazia e della polizia segreta è a dir poco asfissiante ed esistono veri e propri campi di lavoro, dove i malcapitati prigionieri svolgono lavori pesantissimi e subiscono trattamenti farmacologici invasivi mirati a inibirne il kemmer.

Lo sviluppo del rapporto di comprensione, empatia e amicizia (e anche amore impossibile?) tra i due protagonisti mentre vagano sul ghiaccio per fuggire dai nemici è molto toccante. Mi è dispiaciuto molto per il finale… Le Guin fu molto criticata dal movimento femminista per non essere andata più a fondo nella denuncia del sistema patriarcale e per non aver contemplato la possibilità dell’omosessualità su Gethen.

In conclusione, è un esperimento di pensiero nel complesso ben riuscito che induce a riflettere sui nostri assetti sociali, culturali, politici, affettivi e sessuali, anche se personalmente non sono una fan della fantascienza tendente all’inclusione dell’elemento magico-religioso.

B.B.

Ma gli umani sognano pecore vive?

(Originariamente pubblicato su Goodreds il 23/09/2022)

Di certo, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) mi è piaciuto di più della Svastica sul sole (noto anche come L’uomo nell’alto castello, titolo più fedele a quello originale). Ammetto di aver visto il film poco prima di leggere il libro; tuttavia, per molti aspetti si tratta di cose diverse. Non so se si completino a vicenda; piuttosto, penso che vedano la stessa azione (anche se con parecchie differenze nell’intreccio) da prospettive differenti.

La differenza radicale, della quale derivano tutte le altre, è semplice: gli androidi sono assimilabili agli esseri umani o no? Per Philip K. Dick, no, mentre per Ridley Scott sì. Nel libro si fa molto riferimento all’assenza di empatia come loro tratto caratteristico. Si dice più volte che il loro ragionare appare astratto e freddo. Possono essere scambiati per umani soprattutto per via della somiglianza fisica e per l’intelligenza che in superficie è equiparabile a quella umana. Ma, in realtà, di umano c’è poco, perché anche la loro cattiveria è troppo calcolatrice (si veda il passaggio, abbastanza agghiacciante, del ragno). Nel film, questa visione è ribaltata, al punto che gli androidi ormai sono più umani degli umani. Quel che non cambia tra le due versioni è che gli umani sono sempre più simili a robot. Nel libro, poi, è particolarmente evidente dal fatto che Deckard e la moglie, e tutti coloro che hanno denaro sufficiente, programmano il proprio umore con una macchina apposita. Come non pensare a chi ha scritto di robot umanoidi in una maniera vistosamente diversa, ossia ad Isaac Asimov? Di certo, la sua concezione dell’androide è più simile a quella di Scott che a quella di PKD: R. Daneel Olivaw, il robot-poliziotto, appare più umano della sua controparte Homo sapiens, Elijah Bailey. O ancora, l’obbedienza alla Prima Legge della Robotica appare molto vicina all’amore umano nel racconto “Consolazione garantita”. Per non parlare del protagonista del commovente “L’uomo bicentenario”, che dopo appunto due secoli riesce a essere ammesso nel consorzio umano. I due scrittori e il regista concordano sull’involuzione dell’umano nel robotico, mentre lo stesso non si può dire riguardo all’evoluzione che avviene in senso contrario.

Anche nello stile Asimov e PKD non potrebbero essere più diversi: da un lato la chiarezza del rigore espositivo, anche se forse a volte è un po’ troppo didascalico; dall’altro l’incoerenza, la confusione e la ridondanza personificate. Esse, però, sono sintomi evidenti delle diverse sensibilità e tematiche degli autori. Da una parte la semplicità e la chiarezza che segnalano ottimismo nel progresso; dall’altra, la paranoia e le ossessioni di chi a questo progresso non crede, di chi nel futuro vede l’incubo in cui il vero e il falso non esistono più, in cui qualsiasi vivente può essere replicato.

Un aspetto importante che PKD inserisce nel romanzo è quello mistico, che appare molto legato a una sorta di realtà aumentata. Esiste, infatti, una specie di religione chiamata “Mercerianesimo”, dal nome del fondatore, tale Wilbur Mercer, che cammina su una collina e viene colpito da pietre. Chiunque può collegarsi con lui (o con la sua figura?) tramite una “scatola empatica” e camminare ed essere colpito da pietre, anche se si è distanti da quella collina; per la verità, non si sa neanche se esista sul serio. Il confine tra religione e truffa appare molto labile.

A robot umanoidi così avanzati non siamo arrivati. Per ora, neanche a truffe o culti basati sulla realtà aumentata o virtuale. In compenso, il Web ha ampiamente contribuito a creare dei veri e propri mondi paralleli dove la realtà non si sa neanche più cosa sia. Il guaio è che poi il virtuale reale lo diventa. Come vedremo, temo, il 25 settembre.

4/5

B.B.

Da Obizzo II ai giorni nostri

(pubblicato per la prima volta su Goodreads il 31/07/2022)

Non riesco più a tacere. Non tanto per quanto riguarda questo libro in sé e per sé, ma per il ponte infausto tra la Ferrara del passato e quella del presente, un microcosmo che finisce per rappresentare anche il più ampio contesto nazionale.

Breve (ma veridica) storia di Ferrara è una breve storia di Ferrara, per l’appunto. L’autore, Carlo Bassi, è stato un architetto locale piuttosto conosciuto. L’appunto principale che ho da fare è che non c’è stata una correzione delle bozze neanche a pagarla, con sovrabbondanza di virgole e alcuni periodi dalla sintassi molto traballante. Non ne voglio fare una colpa all’architetto Bassi, pace all’anima sua; ma di sicuro la casa editrice, per quanto non sia un grosso nome, avrebbe dovuto intervenire per migliorare la leggibilità del testo.

La molla che mi spinge a scrivere questo “commento” è un’altra: il parallelismo tra il potere estense e quello dell’ultima giunta, che forse non se ne andrà, perlomeno alle prossime elezioni. Ma andiamo con ordine.

Dopo una prima fase di libero comune, non si sa bene come, a un certo punto saltarono fuori gli Este al governo della città. Il primo documento che parla di loro risale al 1171. Nel 1196 il marchese Azzo VI, detto Azzolino, fu nominato podestà di Ferrara. Ma è nel 1264 che si consumò un evento di incalcolabile gravità: Obizzo II si fece “eleggere” signore di Ferrara in perpetuo. A quanto sembra, la popolazione ferrarese è la prima, perlomeno nella penisola italica, a privarsi della propria sovranità per consegnarla, consapevolmente, a un tiranno conclamato. Fu mantenuta l’apparenza delle “elezioni”, ma la realtà è che il dominio estense venne instaurato nel segno della violenza. Come scrive un rinomato storico locale, Luciano Chiappini: “È in realtà con la violenza che si instaura a Ferrara la signoria estense, una violenza che, a parte lo svolgimento rituale della assemblea, non cerca neppure di salvare le apparenze e di creare una qualsiasi base di giustificazione.” Tra il 1289 e il 1290 Obizzo divenne signore anche di Modena e Reggio Emilia, richiamato dai nobili locali per smantellare le strutture comunali. Un altro segno della violenza estense.

Ora, mi si dirà che l’Italia è un Paese democratico, dotato di una Costituzione repubblicana e di un Parlamento. Mi si obietterà che le elezioni, nazionali e locali, sono pulite, trasparenti, cristalline. Ma il requisito della democrazia è un’istruzione solida della cittadinanza tutta e un’informazione di qualità, il meno possibile faziosa. Possiamo davvero affermare che questo requisito sia soddisfatto in un contesto inquinato da notizie false (nel mio piccolo, me ne rendo conto, lo andavo dicendo fin dal 2013, con certe parti politiche che scaricavano colpe su capri espiatori di ogni sorta), in cui il sistema educativo è stato smantellato da politiche miopi quando non apertamente nocive, in cui un certo tipo di televisione ha rincoglionito (mi si passi il francesismo) ampi strati della popolazione, in cui la classe politica è in larghissima maggioranza inadeguata, ignorante, incompetente, arrogante, o addirittura pericolosa (si vedano i ripetuti richiami al Ventennio)? È ovvio che non lo è.

Ferrara, ahimè, non fa eccezione. I due periodi sottolineati in grassetto, ovvero “la popolazione ferrarese è la prima, perlomeno nella penisola italica, a privarsi della propria sovranità per consegnarla, consapevolmente, a un tiranno conclamato. Fu mantenuta l’apparenza delle “elezioni”, ma la realtà è che il dominio estense venne instaurato nel segno della violenza”, con le dovute differenze di periodo storico e la riduzione della violenza, sono molto più attuali di quanto appaiano.

È dal 2019 che Ferrara è diventata una barzelletta, o un incubo (se vuoi ridere per non piangere è la prima, se piangi e basta è il secondo), anche se molti sembrano non rendersene conto, inebriati come sono dall’atmosfera da “panem et circenses” alimentata da eventi e concerti in piazza, rigorosamente a pagamento e in mano a privati (con gran gioia dei residenti a causa del rumore, ma soprattutto del fatto che il comune cittadino non può più fruire del centro della sua città senza sborsare quattrini).

Il guaio è che costoro non rispettano il principio democratico vigente nel consiglio comunale: fanno di tutto per evitare le discussioni. Prendono tempo. Credono che, solo perché sono stati eletti, possono fare qualsiasi cosa, evitando di render conto in municipio, infischiandosene del parere delle opposizioni. Si credono i signori e padroni della città e come tali si pavoneggiano, tronfi. Il voto in massa di queste persone è motivo di profonda riflessione.

Spacciano per “green” le colate di cemento su cui dovrebbe fondarsi un centro commerciale di cui non abbiamo bisogno, solo per fare un favore a un marchio non presente dalle nostre parti. Spacciano per “interesse pubblico” la riqualificazione di un vecchio edificio per farci uno studentato privato, senza prezzi calmierati.
Vogliono organizzare un concerto da 60 000 persone nell’area verde più grande di Ferrara, un ecosistema fragile che già patisce la siccità e che non può contenere tutte quelle persone. Per non parlare dell’impatto che un evento del genere avrebbe sulla fauna selvatica, stordita dalla musica ad alto volume; gli uccelli, giusto per dirne una, muoiono d’infarto. Ah, ma non c’è problema, perché dai piani alti hanno detto che bisognerà spostare gli animali dal parco e impedire la nidificazione nel periodo in prossimità del concerto! Siamo a posto, allora!
Ma si sentono quando parlano?

E queste sono solo le ultime novità dalla città più fascista dell’Emilia-Romagna. Dal 2019 a oggi, ce ne sarebbero fin troppe da raccontare. Quel che è certo, è che guardo con amarezza il futuro di questa città e di questo Paese, pur cercando di non perdere la speranza.

Fonti:
https://www.ferraraitalia.it/progetto-feris-non-basta-dire-no-lavoriamo-insieme-ad-una-nuova-idea-di-citta-259791.html

P.S. C’è una petizione per spostare il concerto in un luogo più consono. Vi prego, firmate! https://www.change.org/p/salviamo-insieme-il-parco-giorgio-bassani-di-ferrara-save-the-park

3/5

B.B.

Società, isole e scienziati pazzi

L’isola del dottor Moreau, la prima opera che leggo di H.G. Wells, pubblicata nel 1896, mi è piaciuta, ma non mi ha entusiasmato. Forse è troppo forte in me l’eco di Frankenstein, al quale, pur tenendo a mente le numerose differenze, tendo a confrontarla. Il punto in comune principale è la presenza dello scienziato pazzo. Però il capolavoro di Mary Wollstonecraft Shelley possiede una dimensione introspettiva completamente assente in Wells, e contiene riferimenti molto potenti a quella che l’autrice considerava la “colpa” della sua vita, la morte di parto della madre.

Il romanzo breve di Wells, per contro, si concentra di più sull’aspetto horror e su una dimensione satirica: Moreau, lo scienziato pazzo, descritto in più occasioni come un vecchio dai capelli bianchi che impone la propria Legge alle sue Creature, gli Uomini Bestia… Non a caso, l’autore stesso definì L’isola del dottor Moreau ‘an exercise in youthful blasphemy’ (Introduzione a The Scientific Romances of H.G. Wells, 1933). Non solo: è anche una critica sociale, in quanto il protagonista Prendick si renderà conto che tra gli Uomini Bestia e gli uomini veri non c’è poi così tanta differenza. Moreau, infatti, viviseziona animali modellandoli il più possibile a immagine e somiglianza dell’uomo e su questi poveri esseri impone la sua Legge, avente come fine l’eliminazione degli istinti. Wells sembra chiederci quanta differenza ci sia tra gli Uomini Bestia e gli uomini veri, soggiogati da una morale eccessiva (tra l’altro siamo in epoca tardo-vittoriana).
Mi sarebbe parso più intuitivo condurre esperimenti su degli esseri umani per eliminarne gli istinti piuttosto che imporre linguaggio e morale umani a degli animali. Tuttavia, Moreau non è disposto a rapire degli umani vivi, né è in grado di infondere la vita ai cadaveri, come Victor Frankenstein.

Degna di nota è la raffigurazione dell’isolamento dello scienziato pazzo su un’isola tropicale disabitata. L’isola, in questa come in tante altre opere, diventa un non-luogo, lontano dal consorzio umano, dove l’impossibile (o perlomeno quello che appare impossibile) può diventare possibile. Nel bene come nel male. Ma anche qui ci potremmo chiedere: l’isola con i suoi Uomini Bestia non ricorda, almeno in qualche misura, la Gran Bretagna e la sua società dell’epoca?

Sicuramente è stata una lettura interessante ma, forse anche perché è di sole 120 pagine, lo sviluppo delle tematiche principali non mi è sembrato completo.

B.B.

L’isola che non c’è

In tempi come questi, sempre più simili a un romanzo distopico, leggere un’utopia è un atto rivoluzionario. Un’azione che, per quanto destabilizzante sia per il singolo lettore, può essere confortante o sconfortante. O forse entrambi. Confortante, perché ci fa intuire che un futuro migliore per tutti (per gli esseri umani, per gli animali, per l’ambiente) è pensabile, e forse anche realizzabile. Sconfortante, perché a leggerne una ci si rende conto di quanta strada ci sia ancora da fare, e ci si chiede se saremo mai in grado di tagliare davvero i ponti con modi di pensare e di vivere deleteri che, tuttavia, continuano a essere ben presenti nella nostra quotidianità e nelle vite delle nazioni.

Aldous Huxley, intellettuale e scrittore britannico già noto per il distopico Il mondo nuovo (Brave New World, 1932), ci consegna, trent’anni più tardi, L’isola (Island), in cui spiega la sua concezione di società utopica. Pala è l’isola del titolo, un luogo proibito situato nell’Oceano Indiano, un’oasi di pace in cui la commistione di scienza occidentale e di religioni e filosofie orientali assicura felicità e benessere. Si tratta di un ben-essere autentico, lontano dal capitalismo e dal consumismo occidentali, in quanto l’isola produce solo quello di cui i suoi abitanti hanno davvero bisogno. Pertanto, la sua economia è al servizio delle persone, non viceversa. È lontano anche dal comunismo, poiché gli organi di governo servono le persone, non sono le persone a servire uno stato (o un partito che coincide con lo stato). Un giornalista, William Asquith “Will” Farnaby, alle dipendenze di un magnate dell’editoria e del petrolio, naufraga di proposito sull’isola per cercare di ottenere concessioni petrolifere dalle autorità locali. Pala, infatti, non è disposta a cedere il proprio petrolio, che usa con parsimonia per impieghi civili, a nessuno. Riuscirà l’isola a resistere?

Questo libro ha meno di 300 pagine, ma è molto denso in termini contenutistici: parla di società, famiglia, scuola, politica, religione, scienza, psicologia e psichedelia (negli ultimi anni della sua vita, Huxley si era interessato di misticismo orientale e allucinogeni). Diversi passaggi, specie quelli che mettono a confronto i pilastri della cultura di Pala, il cristianesimo (in particolare quello protestante) e le ideologie del Novecento, sono molto interessanti. La trama è praticamente assente, mentre i dialoghi sono in buona sostanza dei pretesti per spiegare il funzionamento della società. I personaggi, a parte forse il cinico protagonista, sono quasi intercambiabili. La scrittura mi è parsa abbastanza ripetitiva: i medesimi concetti tornano più e più volte.

Di sicuro non lo consiglio se cercate un intreccio avvincente. Ma se volete immergervi nella descrizione di un’altra società/cultura, seppur fittizia, o se desiderate vedere in uno specchio il generale marciume che corrompe il nostro pianeta, è un buon libro, sebbene l’etichetta “romanzo” mi sembri un po’ fuorviante. Lo stesso concetto di “utopia” come genere narrativo mi pare non sia del tutto compatibile con un intreccio. Forse Huxley sarebbe stato meno ripetitivo se avesse scritto un saggio.

3/5

B.B.

P.S. Per il mio commento sul Mondo nuovo, per quanto datato (il mio primo articolo pubblicato sul blog!), cliccate su questo link: https://bigbookwormblog.wordpress.com/2017/07/17/oh-mirabile-mondo-nuovo-considerazioni-a-cura-di-b-b/

Tra ghiaccio, aceri e scoiattoli

Ero arrivata a poco più di metà. Avevo dei buoni propositi. Speravo di riuscire a finirlo. Ma, in tutta onestà, se mi trascino un giallo da mesi e mesi, al di là delle altre letture che sto portando avanti (per dovere principalmente), vuol dire che c’è qualcosa che non va.
E so bene cosa non mi è andato a genio: personaggi caricaturali, quebecchesi in primis; vicenda troppo inverosimile e quindi debole; la scrittura, che dovrebbe permettere l’immersione del lettore nella psicologia dei personaggi, in particolare di Adamsberg, e che dovrebbe creare e mantenere la suspense, mi è parsa oltremodo piatta, scontata, prevedibile. Non c’è un reale approfondimento psicologico, a maggior ragione se si ha a che fare con i gendarmi quebecchesi, ma anche ad Adamsberg è stato cucito un ruolo, quello che potrei definire “eroe dai modi duri perseguitato ingiustamente” (pur avendo dei conti aperti col passato che però, almeno fin dove ho letto, non ho ben capito). Questo libro sembra un copione già scritto. E non è che basti scrivere di posti pieni di nebbia e nuvole e ghiaccio per rendere un’atmosfera da poliziesco; è utile, ma non è abbastanza. Gli stessi luoghi del Québec sono descritti in una maniera molto, molto aderente al cliché.

Naturalmente, i problemi riscontrati sono riferiti soltanto a questo volume della serie, il sesto. Non escludo che altri romanzi siano migliori e che magari sarebbe stato sensato partire dal primo, ma del resto non l’ho scelto: ho dovuto analizzare alcuni estratti per il mio corso di lingua francese dell’anno accademico scorso, il quale era incentrato sul francese del Québec. C’erano anche altre opere tra cui scegliere, ma la loro versione quebecchese era di difficile reperibilità. Anche la logistica degli esami ha una voce in capitolo.

In conclusione, non ho rimpianti. Eventualmente in futuro proverò a leggere il primo, ma non garantisco niente.

1/5

B.B.

Apprendistato

Copertina che riprende la locandina del film

Therese, diciannove anni, apprendista scenografa. Per me è questa la chiave di Carol (originariamente pubblicato come The Price of SaltIl prezzo del sale, nel 1952): la parola apprendista. Siamo apprendisti in questa vita, presto o tardi; anzi, forse si può affermare che la vita intera sia un unico, gigantesco, implacabile apprendistato.

Non si sceglie come, dove, quando si nasce, e lo stesso vale per la morte. Non si sceglie il proprio paese, la propria famiglia, il colore della propria pelle così come ogni tratto somatico, e non solo. L’essere umano è soggetto al caso. Ma c’è un aspetto che deve assolutamente essere tenuto in conto: il concetto di “normalità”. Sono stati spesi fiumi di parole nel tentativo di definire questa idea una volta per tutte, in ogni angolo del pianeta, invano. Basterebbe già ammettere l’esistenza della ricca diversità etnica e culturale all’interno della nostra specie per capire che la “normalità” non è altro che un costrutto. Non è poi così assurdo ritenere che sia la cultura dominante in un determinato luogo, una concreta forza normativa, a decidere cosa sia “normale” e cosa no. E a ben guardare, scrutando a fondo il corpo e l’animo umano, chi davvero combacia in tutto e per tutto con la “normalità”, comunque la si voglia intendere?

L’apprendistato alla vita è complesso per chiunque: uscire dal bozzolo è un’impresa impegnativa e delicata. Chi non si sente o non è conforme ai dettami della cultura imperante, o viene percepito come tale, parte però svantaggiato nel suo apprendistato alla vita: alle difficoltà che i più, i cosiddetti “normali” (che in realtà non sono), incontrano, se ne sommano altre. Si assume che il cammino sia lo stesso per tutti; si ricaccia quel che si è davvero, o comunque parti di quel che si è, per ricercare un quieto vivere, altrimenti noto come “normalità”. Tradotto in soldoni, si finge di essere altro da sé o si omette ciò che non si è disposti ad ammettere. Due procedure che alla fine in larga parte coincidono.

Questo è ciò che fa Therese. Almeno per un certo periodo. Vive un presente vuoto, incolore, insapore. Resta passiva al punto da rischiare di vivere un futuro altrettanto, se non più, monotono… “Cosa c’è di più noioso della storia passata?” “Forse un futuro che non avrà alcuna storia” (cito a memoria, potrei aver sbagliato le parole esatte della traduzione… nell’originale: “What could be duller than past history!” “Maybe futures that won’t have any history”). Ma Therese, prima di scoppiare, in qualche modo trova la sua strada. Certo, non sarà facile. A maggior ragione se sul suo cammino incontra un personaggio come Carol, più vecchia di lei e il cui status sociale è più alto. Addirittura, il nome di Carol è ormai divenuto il titolo del romanzo. È una scelta che personalmente non condivido: se è vero che questa donna esercita un ruolo non trascurabile nella maturazione di Therese, focalizzare l’intera attenzione su di lei mi sembra che riduca lo spirito più generale dell’opera (se così si può definire), ossia il metaforico prezzo del sale, il prezzo di una vita autenticamente vissuta, che dovranno pagare entrambe. Tutte e due, infatti, sono intrappolate in situazioni complicate, anche se tra loro diverse.

Un altro motivo per cui non condivido un eccessivo focus su Carol è il fatto che non la conosciamo davvero. Infatti, nonostante la terza persona, non riusciamo a distaccarci molto dal filtro di Therese per comprendere meglio quel che accade. Ciò è particolarmente evidente quando Carol non si fa vedere né sentire per un bel po’, pur ricordandoci le sue difficoltose circostanze di vita. Nel frattempo, Therese cerca di contattarla, ma nulla: Carol rimane una sorta di entità sconosciuta, misteriosa, enigmatica, e che in diversi momenti mi ha pure fatto venire un po’ il nervoso. Ma la perdono, dai… In sostanza, quel che più mi preme comunicare è che il proprio apprendistato è un fenomeno individuale; è inevitabile che situazioni di vita, esperienze, incontri ecc. abbiano dei ruoli significativi in tale processo, ma la decisione, ovvero scegliere di vivere autenticamente o no, è solo responsabilità della singola persona. Può essere un cammino complesso, ma non impossibile da concludere.

Forse questa ambivalenza della figura di Carol, catalizzatrice della vicenda ma al tempo stesso distante e opaca, potrebbe essere spiegata facendola rientrare nelle dinamiche narrative a cui l’autrice Patricia Highsmith era avvezza: quelle del noir. Alle quali si aggiunge un aspetto che ho gradito, vale a dire la parte che ricorda una spy story (non dico altro).

Un’ultima considerazione sul finale (non voglio fare spoiler): rimane aperto. Il che è già una gran conquista, considerato che gli amori omosessuali tragici erano la norma (sempre se venivano pubblicate storie al riguardo nei puritani Stati Uniti). Al di là di questo, credo sia il modo migliore con cui far concludere la vicenda: un finale azzeccato.

Il prezzo del sale/Carol è un romanzo non impegnativo ma che può fornire spunti di riflessione a chiunque sia dotato di empatia… Cosa è la lettura, se non un profondo esercizio di empatia? Dovremmo ricordarcelo sempre e anche la nostra vita quotidiana ne uscirebbe migliore. In conclusione, il verdetto è ampiamente positivo. Lo consiglio.

P.S. Prima o poi conto di vedere anche il film. Integrerò le mie osservazioni in questo commento.

4/5

B.B.

Melodramma à gogo

Su questo romanzo a tratti insulso, a tratti irritante, non voglio spendere più parole del necessario. Scriverò, quindi, un commento schematico, ma esaustivo, schietto e forse un po’ irriverente, seguito da un’invocazione finale all’autore:

PERSONAGGI
1) Hyacinth Robinson: individuo dal Sé a dir poco diviso (metà popolano e metà nobile, figlio illegittimo di un lord inglese e di una prostituta francese). Rilegatore di professione, è un inutile, debole, babbeo che si lascia influenzare con estrema facilità da chiunque incontri; oscilla per un bel pezzo tra le istanze del popolo e la vita lussuosa della nobiltà, e cade nella rete della principessa Casamassima.
2) Un paio di donnette misere, ma con una grande passione per l’aristocrazia (miss Pynsent e l’insopportabile Rose Muniment)
3) Un branco di maldestri cospiratori (anarchici? socialisti? non si capisce nulla), tratteggiati in maniera assai rozza e stereotipata. A parte due comunardi francesi in esilio, spicca tra di loro Paul Muniment, a quanto pare il più sveglio. Hyacinth nutre una sorta di venerazione per questo tale, a tratti pure un po’ ambigua.
4) La principessa del titolo. Donna dal forte carattere, in verità, scavando più in profondità, l’ho trovata fatua. Afferma di voler sostenere la causa del popolo ed è un’abile manipolatrice. Hyacinth ci casca come un salame.
5) La figura misteriosa e per certi versi patetica del capitano Sholto.
6) Il signor Vetch, Millicent Henning e Lady Aurora: i primi due sono gli unici che abbiano davvero a cuore quel babbeo di Hyacinth; la terza è la sola persona veramente interessata a migliorare le condizioni del popolo ma, pur essendo anche lei una nobile, non ha lo charme e il carisma della principessa Casamassima.

DINAMICHE
1) Manipolazione e uso strumentale degli altri personaggi per i propri fini: onnipresenti. La principessa manipola Hyacinth; Paul si serve della principessa per i suoi scopi. La principessa scarica Hyacinth perché ormai non si interessa al popolo tanto quanto lei, quindi pensa di servirsi di Paul.
2) Collegata al punto appena sopra: incapacità da parte di Hyacinth di capire chi davvero tenga a lui. Di conseguenza, Hyacinth rincorre sempre le persone sbagliate. Che nervoso! Ahimè, Millicent è una popolana, mica può competere con la principessa. Povera donna.
3) Melodramma: à gogo. Fino all’ultima pagina.
4) Idee semplicisticamente reazionarie che sbucano a ogni piè sospinto. Basti vedere la rappresentazione dei cospiratori. Ma anche il fatto che la carità sia più che altro un modo per i nobili di far mostra della loro gran bontà. La fine del mondo arriverà con lo stato sociale!11!!11!111!

Va bene, signor James, Lei era di un altro periodo storico. Ma la mia pazienza ha un limite. Può avere tutte le idee reazionarie che vuole, ma che almeno Le metta bene per iscritto! Questo è davvero un polpettone ottocentesco. Spero di cuore che abbia scritto di meglio! La prossima volta vorrei rivalutarLa. Ci conto.
Cordiali saluti,

Elena

2/5

B.B.

Quando gli idioti sono gli altri

In ritardo, scrivo il mio modesto parere sull’unica opera, postuma, di John Kennedy Toole. Personaggio stravagante e tragico, morì suicida ancora giovane. È forse lecito vedere Una banda di idioti (A Confederacy of Dunces, 1980) come una sorta di summa della sua visione della vita? Chi lo sa. Di certo è uno strano romanzo, pungente e sarcastico, leggero solo in apparenza, e che all’inizio lascia disorientati di fronte alla stramba, ingombrante figura del protagonista Ignatius Reilly.

Avevo letto le prime cento pagine nel settembre del 2019 e la mia reazione non era stata molto positiva: procedevo strascicando. Mi ero perfino chiesta perché mi fosse venuto in mente di comprare questo libro. Entrare in sintonia con Ignatius, “uno straordinario sciattone, un Oliver Hardy impazzito, un Don Chisciotte ingrassato, un Tommaso d’Aquino perverso, il tutto allo stesso tempo” secondo la prefazione di Walker Percy alla prima edizione, non è stata un’impresa facile. La dimensione del romanzo è talmente grottesca da sfociare spesso nel surreale, e sia la visione del mondo sia il modo di vivere di questo personaggio in certi momenti lasciano davvero spiazzato il lettore. In quelle prime cento pagine, o in quei primi 4 o 5 capitoli, avevo avuto la sensazione di avere a che fare con un sarcasmo così caricato, con un’assurdità così roboante da mollare il libro. Non ero neanche sicura di volerlo continuare.

Così ho lasciato passare tre mesi. E ho fatto bene. Negli ultimi giorni del dicembre 2019, che ora possiamo definire come gli ultimi giorni di vita normale (l’ultimo Natale con la famiglia), l’ho ripreso da dove l’avevo interrotto. E così ho seguito le picaresche avventure di Ignatius, un vero e proprio antieroe che sembra una parodia dell’intellettuale. È, in effetti, un tipo molto pedante e apparentemente puritano, che disprezza (o sostiene di disprezzare) in massimo grado la cultura pop, al punto da andare al cinema solo per lamentarsi della pessima qualità dei film. Ma ha un’autentica venerazione per la filosofia medievale e soprattutto per Boezio. La struttura stessa di Una banda di idioti imita il De Consolatione Philosophiae, con capitoli divisi ulteriormente in sottocapitoli, spesso interrotti dai suoi appunti e dalle lettere che scrive o riceve. Ignatius è convinto che la dea Fortuna abbia deciso di farlo girare in basso nella ruota della vita e che ciò sia ingiusto, in quanto si considera un genio incompreso. Del resto, il titolo del romanzo è ispirato a un epigramma di Swift: “When a true genius appears in the world, you may know him by this sign, that the dunces are all in confederacy against him.”, ovvero: “Quando viene al mondo un genio autentico, lo si può riconoscere dal fatto che gli idioti sono tutti coalizzati contro di lui.” In tutto questo non si rende conto di quanto la madre Irene, peraltro alcolizzata, fatichi a mandare avanti la loro scalcagnata abitazione. Anzi, le attribuisce ogni colpa e non si preoccupa minimamente della sua salute – neanche della propria, considerato il consumo bulimico di cibo spazzatura. Normalmente non lavora, ma spronato dalla madre si lancia in alcuni impieghi con risultati a dir poco disastrosi: prima in una fabbrica di pantaloni sull’orlo del fallimento, circondato da colleghi bislacchi quanto lui, e poi vendendo hot dog per strada (occupazioni a cui si era dedicato lo stesso Toole). Ossessionato dall’assenza di “teologia e geometria” nel mondo, pur di scardinare una contemporaneità e un progresso che critica, ma che in fondo non disprezza, sembra perfino pronto ad appoggiare iniziative strampalate, poco credibili e stridenti con la sua personalità.

Le vicende di Ignatius si svolgono a New Orleans. Questa è stata una grande novità per me, nel mio piccolo, perché non mi ero mai imbattuta prima di allora in romanzi ambientati in questa città… la vecchia Nouvelle Orléans di cui ormai resta poco di francese, se si escludono alcuni cognomi e la toponomastica, anche se negli ultimi anni è in corso un revival creolo e cajun (per esempio, nella gastronomia e nella musica); in fin dei conti, il Mardi Gras non è mai morto (prima della pandemia, beninteso). Ho addirittura scoperto che la Louisiana nel 2018 è entrata a far parte della Francophonie (un po’ l’equivalente francese del Commonwealth), sebbene, in realtà, le varietà locali di francese e le lingue creole stiano vivendo da molti decenni un inesorabile declino. Ma torniamo a noi.

Il nostro è attorniato da una sgangherata ciurma di personaggi, in cui si rispecchiano molte criticità della società statunitense: la già citata Irene; il signor Robichaux, paranoico pensionato anticomunista; l’agente Angelo Mancuso subissato di angherie dal capo, e sua madre Sandra Battaglia, amica della madre di Ignatius; Burma Jones, forse il personaggio più simpatico, un afroamericano sfruttato e ricattato dalla datrice di lavoro Lana Lee, proprietaria di uno strip club e persona non proprio specchiata; la famiglia Levy, di origine ebraica, proprietaria della fabbrica di pantaloni; la decrepita signorina Trixie, che vorrebbe solo andare in pensione ma è tenuta in azienda dalla signora Levy, la quale ritiene di essere la sola capace di mantenerla motivata sfruttando in modo fallimentare le poche e insulse nozioni di un corso di psicologia per corrispondenza; la beatnik Myrna Minkoff, in un certo senso la nemesi di Ignatius benché sia evidente un’attrazione reciproca, per quanto sui generis, e tanti altri…

In conclusione, passato lo scoglio delle prime cento pagine, al netto di qualche assurdità un po’ pretestuosa si ridacchia spesso e volentieri, a volte con una certa amarezza. Romanzo lontano dal politicamente corretto, in esso tutte le categorie sociali sono criticate pesantemente con le armi della satira; Burma Jones è il personaggio che mi è piaciuto di più, il più saggio in tutto quello sgangherato campionario umano. Ignatius ci sta antipatico perché il rischio di diventare come lui è sempre ben presente: quando ci arrocchiamo sulle nostre posizioni senza sforzarci di capire gli altri, quando pensiamo che gli idioti siano gli altri. Quando, in realtà, dovremmo capire che spesso gli idioti siamo proprio noi.

3/5

B.B.

La notte

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.

(pag. 35)