Della misteriosa dignità dell’essere umano

Stoner

 

William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della Prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido. Quando morì, i colleghi donarono alla biblioteca dell’università un manoscritto medievale, in segno di ricordo. Il manoscritto si trova ancora oggi nella sezione dei “Libri rari”, con la dedica: «Donato alla Biblioteca dell’Università del Missouri in memoria di William Stoner, dipartimento di Inglese. I suoi colleghi».

 

Care amiche, cari amici,

Stoner, romanzo di John Williams del 1965 rimasto semisconosciuto per molto tempo, da alcuni anni è misteriosamente tornato in auge. Già il fatto che un libro venga riscoperto aggiunge quel nonsoché di entusiasmante o perlomeno curioso. Non perché il suo manoscritto fosse rimasto nascosto in un cassetto per decenni, come nel caso, per esempio, di Suite francese di Irène Némirovsky, bensì a causa dell’insuccesso all’epoca della sua pubblicazione. Non saprei dire quale tra le due vicende editoriali sia la più affascinante; probabilmente lo sono entrambe, anche se in maniera differente. In effetti, Stoner genera interrogativi piuttosto interessanti: a cosa è dovuta la rinata popolarità? Per quale motivo fino a poco tempo fa era caduto nel dimenticatoio? Vale la pena di leggerlo? I primi due quesiti rimarranno senza risposta: di certo solo delle persone competenti sono in grado di valutare questi fenomeni. Nel mio piccolo, mi azzardo a rispondere al terzo: sì. Se non altro per gli aspetti che più di tutti mi hanno colpito, ovvero il senso della dignità dell’essere umano, il potere consolatorio della letteratura e la discrepanza tra come ci vedono gli altri e come percepiamo noi stessi. Il tutto reso ancora più apprezzabile da una scrittura cristallina e vagamente malinconica.

Il romanzo è incentrato sulla storia di William Stoner, figlio di agricoltori, dal momento in cui si iscrive all’Università del Missouri fino alla morte. Una vita come qualunque altra. Tuttavia, non sempre sono necessarie grandi epopee o voli pindarici della fantasia per comunicarci che ogni esistenza, per quanto insignificante possa sembrare, può contenere qualcosa di speciale.

Stoner, sempre conscio del passato della sua famiglia, non è privo di sensi di colpa quando passa dalla facoltà di Agraria a quella di Lettere, al termine della quale diventerà professore nella stessa università. Eppure, proprio il tradimento delle sue origini è ciò che veramente gli salverà la vita. La perdita dei genitori, un matrimonio fallito ancora prima di cominciare che si trascinerà in maniera surreale e beffarda fino alla fine, la visione della propria figlia succube di una madre nevrotica, le rivalità tra docenti rappresentano chiaramente dei passaggi difficili per lui. Non intendo, però, affermare che sia senza macchia o che sia soltanto una vittima degli eventi. Anzi, si potrebbe dire che il primo a voler mantenere lo status quo sia Stoner stesso, a causa della sua marcata tendenza a evitare le situazioni di conflitto. Tale atteggiamento, per quanto comprensibile in una certa misura, non di rado mi ha irritato: non ha nulla di stoico, mi è parso solo una passiva rassegnazione. Ancora più indisponente è il comportamento della moglie Edith… Ho cercato di capirne le ragioni, non trovando altra spiegazione al di fuori della pessima influenza familiare. L’unico modo per cercare di non innervosirsi troppo è concederle la seminfermità mentale.  In ogni modo, malgrado gli inevitabili difetti del protagonista e le traversie che deve affrontare, è impossibile dire che la sua vita contenga unicamente aspetti funesti. E, al di là di tutto, c’è sempre la letteratura a stargli accanto, guardiana silenziosa di ogni moto dell’anima e di ogni pensiero. Quelli di tutti noi.

Quando il cancro (che istintivamente mi ha fatto pensare a Mastro-don Gesualdo di Verga, e non solo) se lo porterà via, sarà un libro a essergli vicino. Il suo libro, frutto del suo impegno e della sua dignità di essere umano. Lungi da me idealizzare la figura di Stoner, come avrete sicuramente intuito dal paragrafo precedente. Anche perché temo che questo processo appiattisca la complessità dei soggetti, a maggior ragione in una narrazione realistica. In fin dei conti, quale rappresentante della nostra specie, reale o fittizio, ha tutte le carte in regola per essere mitizzato, a parte forse gli eroi dei tempi antichi? Comunque, penso che il personaggio trasmetta un insegnamento: tutti abbiamo la possibilità di lasciare, come dice bene il mio caro Ray Bradbury, «qualche cosa […] che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, […] purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta

A noi la scelta.

 

B.B.

 

4/5